In questa trentanovesima edizione di TELESCOPE nella sezione RACCONTI trovate Marta Santacatterina, storica dell’arte e firma di Artribune, con un testo sulla Galleria Niccoli di Parma e sulla mostra dedicata al suo fondatore, Giuseppe Niccoli, attualmente in corso ad APE Parma Museo; Adolivio Capece, scacchista, giornalista e scrittore, per il primo numero del 2021 – anno del settecentenario dalla morte di Dante Alighieri – ci offre una curiosa riflessione storica su Dante giocatore di scacchi; Davide Silvioli, autore per Rivista Segno e Juliet Art Magazine, ci parla di fotografia a partire dalla mostra True Fictions – Fotografia visionaria dagli anni ’70 ad oggi, in corso alla Fondazione Palazzo Magnani di Reggio Emilia.
Quando a Parma giunsero le avanguardie, di Marta Santacatterina
C’era una volta una giovane editor che lavorava in una redazione con due grandi vetrine fronte strada, a pochi numeri civici da un’altra vetrina ben più prestigiosa, quella della Galleria Niccoli. La giovane editor aveva in tasca una laurea in storia dell’arte e un dottorato, ma aveva deciso di cambiare vita e lavoro rispetto a un’improbabile carriera universitaria. Il legame con l’arte però era ormai solido e così decisi – ebbene, l’editor in erba ero proprio io – di dedicarmi anche al giornalismo culturale per poter frequentare regolarmente mostre e musei e per studiarne i cataloghi.
Data la vicinanza topografica e “spirituale”, fu inevitabile entrare in contatto con la galleria più importante di Parma: conobbi prima Marco poi il “Signor Niccoli”, che dal 1970, prima con attività espositive nella sua libreria e poi con una galleria vera e propria, spianò le strade per l’arrivo delle avanguardie a Parma. Certo, erano anni straordinari: la stagione del dopoguerra aveva visto fiorire gruppi di intellettuali e di artisti, e i decenni successivi erano quelli giusti, ma solo Giuseppe Niccoli ebbe la lungimiranza, la determinazione, il fiuto per creare, in una città provinciale, una galleria d’arte privata capace di competere con le big di Milano e Roma.
Per rendersi conto della portata del suo lavoro basta citare i protagonisti e gli anni di qualche mostra: Manzù (1970), Enrico Baj e Carlo Carrà (1973), Pietro Consagra (1974), Michelangelo Pistoletto e Mario Schifano (1976).
Non solo esposizioni, peraltro. La galleria divenne sede del Centro per l’Arte Contemporanea Italia-Giappone e Giuseppe Niccoli seppe conquistare un’altra occasione straordinaria. Riuscì infatti a convincere Conrad Marca-Relli – importantissimo esponente dell’Espressionismo astratto americano – a trasferirsi a Parma, scegliendo l’Emilia come buen retiro. Naturale, grazie al legame d’amicizia scaturito tra i due, che l’artista statunitense affidasse poi il suo archivio al competente gallerista.
Qualche mese fa i figli Marco e Roberto hanno pensato che fosse giunto il momento per rendere pubblico omaggio a questa figura centrale per l’arte della seconda metà del Novecento – Giuseppe Niccoli è scomparso nel 2016 – e alla faccia del Coronavirus sono riusciti ad allestire una mostra che ripercorre le tappe principali della galleria mediante opere di qualità sorprendente: si ricordano e si svelano così l’attenzione verso il Gruppo Origine o Forma 1, i focus su Emilio Vedova, Giuseppe Capogrossi, Enrico Castellani, la Pop Art italiana, fino a giungere alle monografiche di artisti più recenti come Graziano Pompili o Eduard Habicher.
In uno dei caveau del palazzo in cui ha sede APE Parma Museo, si incontra il gioiello più prezioso, che da solo vale la visita: le 14 stazioni della Via Crucis modellate da Lucio Fontana nel 1947 e acquisite da Giuseppe Niccoli negli anni Ottanta. Osservare quelle forme magmatiche e scintillanti da vicino, lasciarsi pervadere da quel tema tanto sacro quanto doloroso, è un privilegio che, quando le porte della mostra torneranno ad aprirsi, sarà di nuovo a disposizione di tutti.
Dante giocatore di scacchi, di Adolivio Capece
Dante Alighieri nelle sue opere accenna in più di un’occasione al gioco degli scacchi, ma la principale è quando nella Divina Commedia (Paradiso, cantoXXVIII) lo fa in relazione alla questione del numero degli angeli, a quell’epoca assai dibattuta. La terzina completa:
«Lo incendio lor seguiva ogni scintilla; Ed eran tante, che il numero loro Più che il doppiar degli scacchi s’immilla». (Paradiso, XXVIII, 91-93)
Il paragone scacchistico utilizzato è particolarmente significativo: il numero a cui fa riferimento Dante in questi versi è tratto dalla leggenda orientale secondo la quale l’inventore degli scacchi chiese al re di Persia, come premio per la sua invenzione, un chicco di grano sulla prima casella della scacchiera, due sulla seconda, quattro sulla terza, e così via sempre raddoppiando: un numero straordinariamente grande!
Su Dante giocatore di scacchi, le opinioni degli studiosi sono concordi: Dante sapeva giocare – e giocava – a scacchi. Per esempio, nella rielaborazione del suo enorme lavoro critico I tempi, la vita e le opere di Dante (pubblicato a Milano nel 1934), Nicola Zingarelli (1860-1935, ben noto come autore del Vocabolario della lingua italiana) riconobbe che «l’impronta tutta Dantesca della similitudine deve far credere ad una esperienza propria dell’Alighieri in ordine alla conoscenza del gioco degli scacchi e delle singolari proprietà numeriche della scacchiera».
E anche Franz Xaver Kraus (1840-1901), autore del libro Dante pubblicato a Berlino nel 1897, ammise come certa la conoscenza del gioco da parte di Dante. È stato accertato che Dante giocava soprattutto con due suoi grandi amici, Cino da Pistoia e Guido Cavalcanti. Ed è (quasi) certo che avesse anche un suo gioco ‘personale’, pezzi e scacchiera, che portò con sé nel periodo dell’esilio.
Mentre i pezzi sono andati perduti, di una scacchiera che la tradizione affermava appartenuta all’Alighieri si ha notizia in un inventario del 1680, nel quale essa veniva infatti descritta come “Scacco di Dante e sua impresa”. Si trattava di una tavoletta di avorio e legno, di proprietà del Marchese Cospi di Bologna, di cui c’era ancora una descrizione completa al Museo Cospiano di Lorenzo Legati del 1777. Quando però il Museo passò all’Istituto Bolognese (1886), la scacchiera risultava mancante.
Ma nel 1895 il prof. Kraus ritrovò proprio a Bologna un’antica scacchiera, che, basandosi su “documenti autentici” in possesso del proprietario, sembrava poter essere quella stessa custodita al Museo Cospiano. Ma Kraus non ritenne autentici i documenti e concluse che la scacchiera non era quella appartenuta a Dante. Della scacchiera si sono poi perse le tracce
Su fotografia e immagine, di Davide Silvioli
Occuparsi di fotografia, oggigiorno, è alquanto complesso. Tuttavia, nel vivo di un presente segnato da un elevato consumo visivo, argomentarne il vicino passato risulta utile per leggere più pertinentemente il presente. In questo quadro di impulsi, la mostra True Fictions – Fotografia visionaria dagli anni ’70 ad oggi, a cura di Walter Guadagnini, sondando una cronologia dove la fotografia è stata oggetto di profonde trasformazioni, oltre a porre l’attenzione sul fenomeno della staged photography – che deve ancora essere adeguatamente studiato – costituisce un valido termine di paragone per riflettere su alcuni orientamenti della fotografia attuale.
Il progetto racconta il lato più visionario della ricerca fotografica degli ultimi decenni del Novecento, fino alla recente sperimentazione del digitale, tramite il lavoro degli autori più significativi. Fra i molti: Joan Fontcuberta, David Lachapelle, Yasumasa Morimura, Cindy Sherman, Sandy Skoglund, Jeff Wall.
“La staged photography – sostiene il curatore – ha cambiato radicalmente il nostro approccio alla fotografia: da mezzo destinato principalmente a documentare la realtà è diventata il mezzo privilegiato per inventare realtà parallele, menzogne credibili, mondi fantastici. É stata una rivelazione e una rivoluzione negli anni Ottanta ed è diventata un vero e proprio genere negli anni Duemila, quando Photoshop e l’elaborazione digitale hanno trasformato la natura della fotografia”.
Sulla base di tale considerazione, è possibile comprendere come la fotografia digitale sia, ormai, qualcosa di dissociato dal reale. Se oggi si parla di “incompiuto fotografico”, infatti, è perché un’immagine digitale non è mai definitivamente compiuta, poiché legata al processo performativo del refresh time del monitor.
La foto si smaterializza per essere simulata nel video e ciò è legato al suo passaggio da codice (statico) a software (mobile). Per questo, si parla anche di postfotografia, con l’intento di demarcare il confine fra analogico e digitale, insieme al fatto che lo scatto non è più il fine del processo creativo ma il mezzo per giungere a una creazione finale alternativa, mediante la postproduzione. Ciò, unito alla replicabilità illimitata – senza perdita di qualità nei confronti della matrice iniziale – offerta dalla digitalizzazione, ha generato un’inflazione di immagini senza precedenti. Da biblia pauperum, così come venivano apostrofate le raccolte di immagini nel Medio Evo per sottolinearne la funzione didattico-didascalica, esse sono diventate images without viewers, come riconosciuto da Jodi Dean